giovedì 5 settembre 2013

Lo scultore Alberto Giacometti raccontato da Simone de Beauvoir


Alberto Giacometti divenne uno dei miei scultori preferiti sin dalla prima volta che vidi una sua opera. E la prima volta che vidi una sua opera, fu sulla copertina de "Il muro" di Sartre, edizioni Einaudi. (Il mio preferito di lui, è e resta pur sempre "La nausea", fra quelli che ho letto).

Così, tra una pagina e l'altra di "L'età forte" di Beauvoire, tra un aneddoto e l'altro legato a Sartre, vedo affiorare, con assoluta meraviglia e stupore, il nome di Giacometti.
Ecco le pagine più ricche, da me personalmente ricopiate.


da "L'età forte" di Simone de Beauvoir, edizione Einaudi.

Nel corso di quella primavera, stringemmo una nuova amicizia; grazie a Lise, facemmo la conoscenza di Giacometti; come ho già detto, da un pezzo avevamo notato il suo bel volto minerale, i suoi capelli arruffati, i suoi modi da vagabondo. Avevo saputo che era scultore, e svizzero; e sapevo anche che era stato investito da un'automobile: per questo zoppicava appoggiandosi a un bastone. Lo si vedeva spesso con belle donne. Aveva notato Lise al Dôme e le aveva rivolto la parola; lei l'aveva divertito, e gli era nata una simpatia per lei. Lise diceva che non era intelligente: gli aveva domandato se amava Descartes, e lui aveva risposto evasivamente; pertanto lei aveva deciso che l'annoiava; ma le offriva al Dôme dei pranzi che trovava favolosi: giovane, robusta, vorace, non arrivava mai a saziarsi nei ristoranti studenteschi dove andava a mangiare; accettava con entusiasmo gli inviti di lui; peraltro, appena ingoiato l'ultimo boccone, si puliva la bocca e si alzava. Per trattenerla lui aveva escogitato di ordinare un secondo pranzo, che lei consumava con altrettanta gioia del primo: e quando aveva finito, inesorabilmente, se ne andava. « Che animale! », diceva lui con una specie di ammirazione; e per vendicarsile dava dei piccoli colpi di bastone sui polpacci. Una volta lei si lagnò che l'aveva invitata alle Palette con della gente noiosissima; aveva sbadigliato durante tutta la conversazione; apprendemmo in seguito il nome di quegli importuni: erano Dora Marr e Picasso. Lo studio dello scultore si apriva su un cortile in cui Lise trovava comodo installarsi per truccare le biciclette che rubava ai quattro angoli di Parigi. Le domandai che cosa pensasse delle opere di Giacometti, e rise con un'aria imbarazzata: « Non so, sono talmente piccole! ». Sosteneva che le sue sculture non erano più grosse di una testa di spillo. Come giudicarle? Aveva un curioso modo di lavorare, aggiunse; tutto quello che faceva durante la giornata, lo spezzava durante la notte, o viceversa. Un giorno aveva caricato su un carretto a mano tutte le sculture di cui lo studio era pieno, ed era andato a scaricarle nella Senna.
Non ricordo più le circostanze del nostro primo incontro; ebbe luogo da Lippe, credo; capimmo subito che sull'intelligenza di Giacometti Lise s'era sbagliata; ne aveva da vendere, e della migliore qualità: l'intelligenza che aderisce alla realtà e le strappa il suo vero significato. Egli non si accontentava mai di un si dice, di un press'a poco; andava dritto alle cose, e le assediava con infinita pazienza; a volte aveva la mano felice e le rivoltava come un guanto. Tutto lo interessava; la curiosità era la forma che assumeva il suo appassionato amore della vita. Quando era stato investito dall'automobile, aveva pensato con una sorta di divertimento: « E' così che si muore? Cosa mi succederà? » La morte stessa era per lui un'esperienza viva. Durante la degenza in ospedale, ogni minuto gli aveva portato qualche rivelazione inattesa; quando era uscito ne aveva provato quasi un rincrescimento. Quest'avidità mi rapiva. Giacometti si serviva magistralmente della parola per modellare personaggi e ambienti, e per animarli; era uno di quegli individui così rari che ascoltandoli ti arricchiscono. Tra lui e Sartre c'era un'affinità più profonda: entrambi avevano puntato tutto, l'uno sulla letteratura, e l'altro sull'arte; impossibile decidere quale dei due fosse il più maniaco. Del successo, della gloria, del denaro, Giacometti se ne infischiava: voleva riuscire. Che cosa voleva esattamente? Anch'io rimasi sconcertata, la prima volta che vidi le sue sculture: era proprio vero che la più voluminosa aveva appena le dimensioni di un pisello. Nel corso delle nostre numerose conversazioni, egli si spiegò. In passato era stato legato ai surrealisti; effettivamente, mi ricordavo di aver visto il suo nome, e la riproduzione di una sua opera, ne L'Amour Fou. A quel tempo, confezionava degli « oggetti » come piacevano a Breton e ai suoi amici, che avevano con la realtà solo dei rapporti allusivi. Ma da due o tre anni quella via gli appariva come un vicolo cieco; voleva tornare a quello che oggi riteneva il vero problema della scultura: ricreare il volto umano. Breton ne era rimasto scandalizzato: « Una faccia, tutti sanno che cos'è! » Giacometti ripeteva a sua volta questa frase in tono scandalizzato; secondo lui, nessuno era riuscito a intagliare o a modellare una valida rappresentazione del volto umano, bisognava ripartire da zero.
Un volto, ci diceva, è un tutto indivisibile, un senso, un'espressione; mentre, al contrario, la materia inerte, marmo, bronzo o gesso che sia, si divide all'infinito; ogni particella si isola, contraddice l'insieme, lo distrugge. Egli cercava di riassorbire la materia fino ai limiti del possibile: e così era arrivato a modellare quelle teste quasi senza volume in cui si imprimeva, egli pensava, l'unità del volto umano, quale essa si presenta allo sguardo. Forse un giorno avrebbe trovato un altro mezzo per strapparla alla vertiginosa dispersione dello spazio: per ora non aveva saputo inventare che quello. Sartre, che fin dalla giovinezza si sforzava di comprendere il reale della sua verità sintetica, fu particolarmente toccato da questa ricerca; il punto di vista di Giacometti si accostava a quello della fenomenologia, poiché egli cercava di scolpire un volto in situazione, nella sua esistenza per gli altri, a distanza, superando così gli errori dell'idealismo soggettivi e quelli del falso oggettivismo. Giacometti non aveva mai pensato che l'arte potesse limitarsi a far rilucere delle apparenze; in compenso, l'influenza dei cubisti e dei surrealisti l'aveva spinto, come molti artisti dell'epoca, a confondere l'immaginario e il reale: durante tutto un periodo egli aveva lavorato non già a mostrare la realtà per mezzo di un analogo materiale, ma a fabbricare delle cose. Adesso, egli criticava negli altri come in se stesso questa aberrazione. Parlava di Mondrian, il quale, considerando che la sua tela era piatta, si rifiutava di iscrivervi immaginariamente tre dimensioni: « Ma, - diceva Giacometti con un sorriso crudele, - quando due linee s'incrociano, ce n'è sempre una che passa sopra all'altra: non è vero che i suoi quadri sono piatti! » Nessuno era andato tanto avanti in quel vicolo cieco quanto Marcel Duchamp, che Giacometti amava molto. Prima aveva dipinto dei quadri, e tra gli altri la celebre Mariée mise à nu par ses célibataires mêmes. Ma un quadro non esiste che per lo sguardo che lo anima; Duchamp voleva che le sue creazioni si reggessero in piedi senza alcun aiuto; s'era messo a copiare in marmo dei pezzi di zucchero; questi simulacri non lo avevano soddisfatto; aveva modellato degli oggetti d'uso, del tutto reali, tra gli altri una scacchiera; poi si accontentò di comprare dei piatti o dei bicchieri e di firmarli. Finì per incrociare le braccia. In Giacometti, questi falsi problemi non avevano nulla di molto profondo: la sua vera preoccupazione era di difendersi dalla infinita e terrificante vacuità dello spazio. Per un lungo periodo, camminando per le strade, aveva avuto bisogno di toccare con mano la solidità del muro per resistere alla voragine che gli si apriva accanto. In un altro momento gli era sembrato che nulla avesse peso: nei corsi, sulle piazze, i passanti fluttuavano. Da Lippe, indicando le pareti sovraccariche di ornamenti, diceva gioiosamente: « Non un buco, non uno spazio! la pienezza assoluta! » Non mi stancavo mai di ascoltarlo. Una volta tanto la natura non aveva ingannato; ciò che prometteva il suo volto, Giacometti lo manteneva; a guardarlo da vicino, d'altronde, saltava agli occhi che quei tratti non erano quelli di un uomo ordinario. Non si sarebbe potuto predire se sarebbe riuscito « a torcere il collo alla scultura » o se sarebbe fallito nel tentativo di dominare lo spazio; ma il suo tentativo stesso era già più appassionante dei successi.

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