giovedì 26 settembre 2013

Idioterne


"Idioterne" di Lars Von Trier, 1998.

"Secondo Rudolf Steiner i mongoloidi sarebbero un dono all'umanità. Sono i visitatori di un altro pianeta o dello spazio. Una nozione che può servire da terapia per ritrovare il bambino o l'animale dentro di noi.";

"...Idioterne è un film moderno, ma è comunque nostalgico. Esprime il rimpianto della Nouvelle Vague e di tutte le sue influenze... esprime la nostalgia legata ad un periodo che non ho vissuto, che predicava la libertà e la liberazione a tutti i livelli.".


mercoledì 18 settembre 2013

"L'usignolo di Keats", saggio di Jorge Luis Borges


"L'usignolo di Keats", saggio di Jorge Luis Borges.

Coloro che abbiano frequentato la poesia lirica d’Inghilterra non dimenticheranno la
Ode a un usignuolo che John Keats, tisico, povero e forse sfortunato in amore, compose in un giardino di Hampstead, a ventitré  anni, in una delle notti del mese di aprile del 1819. Keats, nel giardino suburbano, udì l’eterno usignuolo di Ovidio e di Shakespeare e sentì la propria condizione di mortale e la oppose alla tenue voce imperitura dell’invisibile uccello. Keats aveva scritto che il poeta deve dare poesie naturalmente, come l’albero dà foglie; due o tre ore gli bastarono per creare quella pagina d’inesauribile e insaziabile bellezza, che poi avrebbe appena limata; il suo pregio, ch’io sappia, non è stato discusso da alcuno; lo è stata, invece, la sua interpretazione. Il nodo del problema sta nella penultima strofa - L’uomo determinato dalle circostanze e mortale si rivolge all’uccello, « che non calpestano le affamate generazioni » e la cui voce è la stessa che nei campi d’Israele, un’antica sera, udì Ruth la moabita.

Nella sua monografia su Keats, pubblicata nel 1887, Sidney Colvin (che ebbe un carteggio con Stevenson e fu un suo amico) avvertì o inventò una difficoltà nella strofa di cui parlo. Copio la sua curiosa affermazione « Con un errore di logica, che a parer mio è anche un errore poetico, Keats oppone alla fugacità della vita umana, per cui intende la vita dell’individuo, il perenne durare della vita dell’uccello, per cui intende la vita della specie ». Nel 1895, Bridges ripeté l’accusa; F.R. Leavis l’approvò nel 1936 e vi aggiunse la nota: « Naturalmente, l’errore racchiuso in questo concetto prova l’intensità del sentimento che lo genera ». Keats, nella prima strofa del poema, aveva chiamato driade l’usignuolo; un altro critico, Garrod, con tutta serietà si valse di tale epiteto per sentenziare che, nella settima, l’uccello è immortale perché è una driade, una divinità dei boschi. Amy Lowell scrisse, più felicemente: « Il lettore che abbia un briciolo di sentimento fantastico o poetico intuirà immediatamente che Keats non si riferisce all’usignuolo che cantava in quel momento, ma alla specie ».
Cinque giudizi di cinque critici, attuali e passati, ho raccolti; credo che di essi il meno futile sia quello della nordamericana Amy Lowell, ma rifiuto l’opposizione che in esso è postulata tra l’effimero usignuolo di una notte e l’usignuolo generico. La chiave, l’esatta chiave della strofa, sta, credo, in un paragrafo metafisico di Schopenhauer, che non la lesse mai.
L’Ode a un usignuolo è del 1819; nel 1844 apparve il secondo volume de Il mondo come volontà e rappresentazione. Nel capitolo 41 si legge: « Chiediamoci con sincerità se la rondine di quest’estate è un’altra da quella dell’estate passata e se realmente tra le due il miracolo di trarre qualcosa dal nulla si è verificato milioni di volte per essere smentito altrettanto dall’annientamento assoluto. Chi mi oda affermare che il gatto che sta giocando lì è lo stesso che saltava e scherzava in quel luogo trecento anni fa, penserà di me quel che vorrà, ma pazzia più strana è immaginare che- fondamentalmente sia un altro ». Cioè, l’individuo é  in qualche modo la specie, e l’usignuolo di Keats è anche l’usignuolo di Ruth.
Keats, che, senza troppa imprecisione, poté scrivere:« Non so niente, non ho letto niente », indovinò attraverso le pagine di un dizionario scolastico lo spirito greco; sottilissima prova di quell’indovinare o ricreare è l’aver intuito nell’oscuro usignuolo di una notte l’usignuolo platonico. Keats, forse incapace di definire la parola archetipo, precedette di un quarto di secolo una tesi di Schopenhauer.
Chiarita così la difficoltà, resta da chiarirne una seconda, d’indole assai diversa. Come mai non pensarono a questa interpretazione evidente Garrod e Leavis e gli altri? * Leavis è professore di uno dei collegi di Cambridge — la città che, nel secolo XVII, raccolse e dette nome ai Cambridge Platonists —; Bridges scrisse un poema platonico intitolato The Fourth Dimension; la sola enumerazione di questi fatti sembra aggravare l’enigma. Se non mi sbaglio, la ragione deriva da qualcosa che è essenziale nella mente britannica.
Coleridge osserva che tutti gli uomini nascono aristotelici o platonici. Gli ultimi sentono che le classi, gli ordini e i generi sono realtà; i primi, che sono generalizzazioni; per questi, il linguaggio non è altro che un approssimativo giuoco di simboli; per quelli è la mappa dell’universo. Il platonico sa che l’universo è in qualche modo un cosmo, un ordine; tale ordine, per l’aristotelico, può essere un errore o una finzione della nostra conoscenza parziale. Attraverso le latitudini e le epoche, i due antagonisti immortali cambiano di lingua e di nome: uno è Parmenide, Platone, Spinoza, Kant, Francis Bradley; l’altro, Eraclito, Aristotele, Locke, Hume, William James. Nelle ardue scuole del Medio Evo, tutti invocano Aristotele, maestro dell’umana ragione (Convivio, IV, 2), ma i nominalisti sono Aristotele; i realisti, Platone. Il nominalismo inglese del secolo XIV risorge nello scrupoloso idealismo inglese del secolo XVIII; l’economia della formula di Occam, entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem, permette o prefigura il meno tassativo esse est percipi. Gli uomini, disse Coleridge, nascono aristotelici o platonici; della mente inglese è dato osservare che nacque aristotelica. Il reale, per quella mente, non sono i concetti astratti, ma gli individui; non l’usignuolo generico, ma gli usignuoli concreti. È naturale, forse inevitabile, che in Inghilterra non sia compresa rettamente l’Ode a un usignuolo.
Nessuno veda riprovazione o disdegno nelle parole che precedono. L’inglese rifiuta il generico perché sente che l’individuale è irriducibile, inassimilabile e senza eguale. Uno scrupolo etico, non un’incapacità speculativa, gl’impedisce di operare con astrazioni, come i tedeschi. Non capisce l’Ode a un usignuolo; codesta importante incomprensione gli permette di essere Locke, di essere Berkeley e Hume, e di redigere, settant’anni fa, gl’inascoltati e profetici avvertimenti dell’Individuo contro lo Stato.
L’usignuolo, in tutte le lingue del mondo, gode di nomi melodiosi (nightingale, nachtigall, ruiseñor), come se gli uomini istintivamente avessero voluto che questi non demeritassero del canto che li meravigliò. A tal punto lo hanno esaltato i poeti, che ora è un poco irreale; meno affine alla calandra che all’angelo. Dagli enigmi sassoni del Libro di Exeter (« io, antico cantore della sera, reco ai nobili gioia nelle ville ») alla tragica Atalanta di Swinburne, l’infinito usignuolo ha cantato nella letteratura inglese; Chaucer e Shakespeare lo esaltano, e così Milton e Matthew Arnold, ma a John Keats uniamo fatalmente la sua immagine, come a Blake quella della tigre.* A questi bisognerebbe aggiungere il geniale poeta William Butler Yeats che, nella prima strofa di Sailìng to Byzantium, parla delle « morenti generazioni » di uccelli, con allusione deliberata o involontaria all’Ode. Si veda T.R. Henn, The Lonely Tower, 1950, p.211.

martedì 17 settembre 2013

Éliane Radigue


Ho ascoltato i suoi pezzi centinaia di volte, ne sono innamorata alla follia.

Éliane Radigue (nata il 24 gennaio 1932) è una compositrice francese di musica elettronica.
Ha iniziato la sua attività nel 1950 e le sue prime creazioni sono state presentate alla fine del 1960. Fino al 2000 il suo lavoro è stato creato quasi esclusivamente su un unico
sintetizzatore, il sistema modulare ARP 2500 e su nastro. Dal 2001 compone soprattutto per strumenti acustici.


Eliane Radigue - Elemental II (Part 2/2)

Eliane Radigue - Jetsun Mila (1)

Eliane Radigue - Jetsun Mila (2)

Vi propongo anche un breve video su di lei, trovato su Vimeo.
A Portrait of Eliane Radigue (2009)


venerdì 13 settembre 2013

Che libro sei, sei stato o vorresti essere?


Newsletter. Una delle tante di oggi. Mi chiede: "Che libro sei, sei stato o vorresti essere?".
Da bambina (9-14 anni) sono stata "Poesie d'amore" di Jacques Prévert.
Sono diventata "Il gabbiano" di Anton Čecov.
Passando attraverso "La nausea" di Jean-Paul Sartre, sono diventata "Il libro dell'inquietudine di Bernardo Soares" di Fernando Pessoa.
Sono "Walden" di Henry D. Thoreau.
Vorrei essere, o "Opera aperta" di Umberto Eco, o "Sonetti" di Stéphane Mallarmé: forse più il secondo. ;)
Non ne ho messo nessuno del mio amato Artaud, né "Quando Teresa si arrabbiò con Dio" di Jodorowsky, né nessuno di Calvino, lo so, ma non sono stata nessuno di questi libri, pur avendoli amati alla follia.
Il tempo di pubblicare questo post, e mi verranno alla mente altri duecento libri che avrei nominato al posto di questi, ovvio, no?

mercoledì 11 settembre 2013

Sbagliare è umano, perseverare è Delirium

 
Perché tutte le donne che piacciono a me sono etero?
Neanche bi, proprio etero, esclusivamente etero.
Ci sono tre ragazze per cui ho una mezza cotta già da tempo, da anni...
Le seguo assiduamente su Facebook e su altri profili e blog che hanno sparsi per la rete, senza mai aver chiesto loro l'amicizia, o aver cercato di farmi notare con, che so, un iLike. Perché, in ogni caso, a tutte e tre, piacciono solo gli uomini.
Non voglio cacciarmi in una di quelle situazioni del piffero in cui alla fine si diventa delle simpatiche amichette, ho già preso le mie batoste. Sbagliare è umano, perseverare è Delirium.
Sono tutte abbastanza patite di electro music (anche se nessuna delle tre arriva ai miei estremi sperimentali), arte contemporanea, vivono come se si trovassero in un paese moderno e alternativo, e hanno gusti molto simili ai miei.
Ognuna di loro, in realtà, ha un difetto:
. la prima è della Puglia, una regione che odio profondamente, anche se lei è una fanciulla super alternativa e vive lontano dalla sua terra d'origine;
. un'altra ha dei gatti in casa ed è fissata con i gatti, ed io gli animali domestici li tollero solo se in teglie da forno;
. l'altra, invece, pur essendo la più figa di tutte, e colta sino a farmi sentire un lombrico a confronto, ha qualcosa che le manca delle altre due, sfumature, ma che fanno la differenza.
Perché mi piacciono le etero? Che razza di problemi ho?

Balthus


Balthus, pseudonimo di Balthasar Kłossowski de Rola (Parigi, 29 Febbraio 1908 - Rossinière, 18 Febbraio 2001), pittore francese di origine polacca.

 Guitar lesson, 1934
Alicia, 1933
Drawing room, 1942
 The white skirt, 1937
 The street, 1933
 Patience, 1943
 Nude with cat, 1949
 Still life, 1937

Getting up, 1955

The mediterranean cat, 1949

giovedì 5 settembre 2013

Lo scultore Alberto Giacometti raccontato da Simone de Beauvoir


Alberto Giacometti divenne uno dei miei scultori preferiti sin dalla prima volta che vidi una sua opera. E la prima volta che vidi una sua opera, fu sulla copertina de "Il muro" di Sartre, edizioni Einaudi. (Il mio preferito di lui, è e resta pur sempre "La nausea", fra quelli che ho letto).

Così, tra una pagina e l'altra di "L'età forte" di Beauvoire, tra un aneddoto e l'altro legato a Sartre, vedo affiorare, con assoluta meraviglia e stupore, il nome di Giacometti.
Ecco le pagine più ricche, da me personalmente ricopiate.


da "L'età forte" di Simone de Beauvoir, edizione Einaudi.

Nel corso di quella primavera, stringemmo una nuova amicizia; grazie a Lise, facemmo la conoscenza di Giacometti; come ho già detto, da un pezzo avevamo notato il suo bel volto minerale, i suoi capelli arruffati, i suoi modi da vagabondo. Avevo saputo che era scultore, e svizzero; e sapevo anche che era stato investito da un'automobile: per questo zoppicava appoggiandosi a un bastone. Lo si vedeva spesso con belle donne. Aveva notato Lise al Dôme e le aveva rivolto la parola; lei l'aveva divertito, e gli era nata una simpatia per lei. Lise diceva che non era intelligente: gli aveva domandato se amava Descartes, e lui aveva risposto evasivamente; pertanto lei aveva deciso che l'annoiava; ma le offriva al Dôme dei pranzi che trovava favolosi: giovane, robusta, vorace, non arrivava mai a saziarsi nei ristoranti studenteschi dove andava a mangiare; accettava con entusiasmo gli inviti di lui; peraltro, appena ingoiato l'ultimo boccone, si puliva la bocca e si alzava. Per trattenerla lui aveva escogitato di ordinare un secondo pranzo, che lei consumava con altrettanta gioia del primo: e quando aveva finito, inesorabilmente, se ne andava. « Che animale! », diceva lui con una specie di ammirazione; e per vendicarsile dava dei piccoli colpi di bastone sui polpacci. Una volta lei si lagnò che l'aveva invitata alle Palette con della gente noiosissima; aveva sbadigliato durante tutta la conversazione; apprendemmo in seguito il nome di quegli importuni: erano Dora Marr e Picasso. Lo studio dello scultore si apriva su un cortile in cui Lise trovava comodo installarsi per truccare le biciclette che rubava ai quattro angoli di Parigi. Le domandai che cosa pensasse delle opere di Giacometti, e rise con un'aria imbarazzata: « Non so, sono talmente piccole! ». Sosteneva che le sue sculture non erano più grosse di una testa di spillo. Come giudicarle? Aveva un curioso modo di lavorare, aggiunse; tutto quello che faceva durante la giornata, lo spezzava durante la notte, o viceversa. Un giorno aveva caricato su un carretto a mano tutte le sculture di cui lo studio era pieno, ed era andato a scaricarle nella Senna.
Non ricordo più le circostanze del nostro primo incontro; ebbe luogo da Lippe, credo; capimmo subito che sull'intelligenza di Giacometti Lise s'era sbagliata; ne aveva da vendere, e della migliore qualità: l'intelligenza che aderisce alla realtà e le strappa il suo vero significato. Egli non si accontentava mai di un si dice, di un press'a poco; andava dritto alle cose, e le assediava con infinita pazienza; a volte aveva la mano felice e le rivoltava come un guanto. Tutto lo interessava; la curiosità era la forma che assumeva il suo appassionato amore della vita. Quando era stato investito dall'automobile, aveva pensato con una sorta di divertimento: « E' così che si muore? Cosa mi succederà? » La morte stessa era per lui un'esperienza viva. Durante la degenza in ospedale, ogni minuto gli aveva portato qualche rivelazione inattesa; quando era uscito ne aveva provato quasi un rincrescimento. Quest'avidità mi rapiva. Giacometti si serviva magistralmente della parola per modellare personaggi e ambienti, e per animarli; era uno di quegli individui così rari che ascoltandoli ti arricchiscono. Tra lui e Sartre c'era un'affinità più profonda: entrambi avevano puntato tutto, l'uno sulla letteratura, e l'altro sull'arte; impossibile decidere quale dei due fosse il più maniaco. Del successo, della gloria, del denaro, Giacometti se ne infischiava: voleva riuscire. Che cosa voleva esattamente? Anch'io rimasi sconcertata, la prima volta che vidi le sue sculture: era proprio vero che la più voluminosa aveva appena le dimensioni di un pisello. Nel corso delle nostre numerose conversazioni, egli si spiegò. In passato era stato legato ai surrealisti; effettivamente, mi ricordavo di aver visto il suo nome, e la riproduzione di una sua opera, ne L'Amour Fou. A quel tempo, confezionava degli « oggetti » come piacevano a Breton e ai suoi amici, che avevano con la realtà solo dei rapporti allusivi. Ma da due o tre anni quella via gli appariva come un vicolo cieco; voleva tornare a quello che oggi riteneva il vero problema della scultura: ricreare il volto umano. Breton ne era rimasto scandalizzato: « Una faccia, tutti sanno che cos'è! » Giacometti ripeteva a sua volta questa frase in tono scandalizzato; secondo lui, nessuno era riuscito a intagliare o a modellare una valida rappresentazione del volto umano, bisognava ripartire da zero.
Un volto, ci diceva, è un tutto indivisibile, un senso, un'espressione; mentre, al contrario, la materia inerte, marmo, bronzo o gesso che sia, si divide all'infinito; ogni particella si isola, contraddice l'insieme, lo distrugge. Egli cercava di riassorbire la materia fino ai limiti del possibile: e così era arrivato a modellare quelle teste quasi senza volume in cui si imprimeva, egli pensava, l'unità del volto umano, quale essa si presenta allo sguardo. Forse un giorno avrebbe trovato un altro mezzo per strapparla alla vertiginosa dispersione dello spazio: per ora non aveva saputo inventare che quello. Sartre, che fin dalla giovinezza si sforzava di comprendere il reale della sua verità sintetica, fu particolarmente toccato da questa ricerca; il punto di vista di Giacometti si accostava a quello della fenomenologia, poiché egli cercava di scolpire un volto in situazione, nella sua esistenza per gli altri, a distanza, superando così gli errori dell'idealismo soggettivi e quelli del falso oggettivismo. Giacometti non aveva mai pensato che l'arte potesse limitarsi a far rilucere delle apparenze; in compenso, l'influenza dei cubisti e dei surrealisti l'aveva spinto, come molti artisti dell'epoca, a confondere l'immaginario e il reale: durante tutto un periodo egli aveva lavorato non già a mostrare la realtà per mezzo di un analogo materiale, ma a fabbricare delle cose. Adesso, egli criticava negli altri come in se stesso questa aberrazione. Parlava di Mondrian, il quale, considerando che la sua tela era piatta, si rifiutava di iscrivervi immaginariamente tre dimensioni: « Ma, - diceva Giacometti con un sorriso crudele, - quando due linee s'incrociano, ce n'è sempre una che passa sopra all'altra: non è vero che i suoi quadri sono piatti! » Nessuno era andato tanto avanti in quel vicolo cieco quanto Marcel Duchamp, che Giacometti amava molto. Prima aveva dipinto dei quadri, e tra gli altri la celebre Mariée mise à nu par ses célibataires mêmes. Ma un quadro non esiste che per lo sguardo che lo anima; Duchamp voleva che le sue creazioni si reggessero in piedi senza alcun aiuto; s'era messo a copiare in marmo dei pezzi di zucchero; questi simulacri non lo avevano soddisfatto; aveva modellato degli oggetti d'uso, del tutto reali, tra gli altri una scacchiera; poi si accontentò di comprare dei piatti o dei bicchieri e di firmarli. Finì per incrociare le braccia. In Giacometti, questi falsi problemi non avevano nulla di molto profondo: la sua vera preoccupazione era di difendersi dalla infinita e terrificante vacuità dello spazio. Per un lungo periodo, camminando per le strade, aveva avuto bisogno di toccare con mano la solidità del muro per resistere alla voragine che gli si apriva accanto. In un altro momento gli era sembrato che nulla avesse peso: nei corsi, sulle piazze, i passanti fluttuavano. Da Lippe, indicando le pareti sovraccariche di ornamenti, diceva gioiosamente: « Non un buco, non uno spazio! la pienezza assoluta! » Non mi stancavo mai di ascoltarlo. Una volta tanto la natura non aveva ingannato; ciò che prometteva il suo volto, Giacometti lo manteneva; a guardarlo da vicino, d'altronde, saltava agli occhi che quei tratti non erano quelli di un uomo ordinario. Non si sarebbe potuto predire se sarebbe riuscito « a torcere il collo alla scultura » o se sarebbe fallito nel tentativo di dominare lo spazio; ma il suo tentativo stesso era già più appassionante dei successi.