"L'usignolo di Keats", saggio di Jorge Luis Borges.
Coloro che abbiano frequentato la poesia lirica d’Inghilterra non dimenticheranno la Ode a un usignuolo
che John Keats, tisico, povero e forse sfortunato in amore, compose in
un giardino di Hampstead, a ventitré anni, in una delle notti del mese
di aprile del 1819. Keats, nel giardino suburbano, udì l’eterno
usignuolo di Ovidio e di Shakespeare e sentì la propria condizione di
mortale e la oppose alla tenue voce imperitura dell’invisibile uccello.
Keats aveva scritto che il poeta deve dare poesie naturalmente, come
l’albero dà foglie; due o tre ore gli bastarono per creare quella pagina
d’inesauribile e insaziabile bellezza, che poi avrebbe appena limata;
il suo pregio, ch’io sappia, non è stato discusso da alcuno; lo è stata,
invece, la sua interpretazione. Il nodo del problema sta nella
penultima strofa - L’uomo determinato dalle circostanze e mortale si
rivolge all’uccello, « che non calpestano le affamate generazioni » e la
cui voce è la stessa che nei campi d’Israele, un’antica sera, udì Ruth
la moabita.
Nella
sua monografia su Keats, pubblicata nel 1887, Sidney Colvin (che ebbe
un carteggio con Stevenson e fu un suo amico) avvertì o inventò una
difficoltà nella strofa di cui parlo. Copio la sua curiosa affermazione «
Con un errore di logica, che a parer mio è anche un errore poetico,
Keats oppone alla fugacità della vita umana, per cui intende la vita
dell’individuo, il perenne durare della vita dell’uccello, per cui
intende la vita della specie ». Nel 1895, Bridges ripeté l’accusa; F.R.
Leavis l’approvò nel 1936 e vi aggiunse la nota: « Naturalmente,
l’errore racchiuso in questo concetto prova l’intensità del sentimento
che lo genera ». Keats, nella prima strofa del poema, aveva chiamato
driade l’usignuolo; un altro critico, Garrod, con tutta serietà si valse
di tale epiteto per sentenziare che, nella settima, l’uccello è
immortale perché è una driade, una divinità dei boschi. Amy Lowell
scrisse, più felicemente: « Il lettore che abbia un briciolo di
sentimento fantastico o poetico intuirà immediatamente che Keats non si
riferisce all’usignuolo che cantava in quel momento, ma alla specie ».
Cinque
giudizi di cinque critici, attuali e passati, ho raccolti; credo che di
essi il meno futile sia quello della nordamericana Amy Lowell, ma
rifiuto l’opposizione che in esso è postulata tra l’effimero usignuolo
di una notte e l’usignuolo generico. La chiave, l’esatta chiave della
strofa, sta, credo, in un paragrafo metafisico di Schopenhauer, che non
la lesse mai.
L’Ode a un usignuolo è del 1819; nel 1844 apparve il secondo volume de Il mondo come volontà e rappresentazione.
Nel capitolo 41 si legge: « Chiediamoci con sincerità se la rondine di
quest’estate è un’altra da quella dell’estate passata e se realmente tra
le due il miracolo di trarre qualcosa dal nulla si è verificato milioni
di volte per essere smentito altrettanto dall’annientamento assoluto.
Chi mi oda affermare che il gatto che sta giocando lì è lo stesso che
saltava e scherzava in quel luogo trecento anni fa, penserà di me quel
che vorrà, ma pazzia più strana è immaginare che- fondamentalmente sia
un altro ». Cioè, l’individuo é in qualche modo la specie, e
l’usignuolo di Keats è anche l’usignuolo di Ruth.
Keats,
che, senza troppa imprecisione, poté scrivere:« Non so niente, non ho
letto niente », indovinò attraverso le pagine di un dizionario
scolastico lo spirito greco; sottilissima prova di quell’indovinare o
ricreare è l’aver intuito nell’oscuro usignuolo di una notte l’usignuolo
platonico. Keats, forse incapace di definire la parola archetipo,
precedette di un quarto di secolo una tesi di Schopenhauer.
Chiarita
così la difficoltà, resta da chiarirne una seconda, d’indole assai
diversa. Come mai non pensarono a questa interpretazione evidente Garrod
e Leavis e gli altri? * Leavis è professore di uno dei collegi di Cambridge — la città che, nel secolo XVII, raccolse e dette nome ai Cambridge Platonists —; Bridges scrisse un poema platonico intitolato The Fourth Dimension;
la sola enumerazione di questi fatti sembra aggravare l’enigma. Se non
mi sbaglio, la ragione deriva da qualcosa che è essenziale nella mente
britannica.
Coleridge
osserva che tutti gli uomini nascono aristotelici o platonici. Gli
ultimi sentono che le classi, gli ordini e i generi sono realtà; i
primi, che sono generalizzazioni; per questi, il linguaggio non è altro
che un approssimativo giuoco di simboli; per quelli è la mappa
dell’universo. Il platonico sa che l’universo è in qualche modo un
cosmo, un ordine; tale ordine, per l’aristotelico, può essere un errore o
una finzione della nostra conoscenza parziale. Attraverso le latitudini
e le epoche, i due antagonisti immortali cambiano di lingua e di nome:
uno è Parmenide, Platone, Spinoza, Kant, Francis Bradley; l’altro,
Eraclito, Aristotele, Locke, Hume, William James. Nelle ardue scuole del
Medio Evo, tutti invocano Aristotele, maestro dell’umana ragione (Convivio,
IV, 2), ma i nominalisti sono Aristotele; i realisti, Platone. Il
nominalismo inglese del secolo XIV risorge nello scrupoloso idealismo
inglese del secolo XVIII; l’economia della formula di Occam, entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem, permette o prefigura il meno tassativo esse est percipi.
Gli uomini, disse Coleridge, nascono aristotelici o platonici; della
mente inglese è dato osservare che nacque aristotelica. Il reale, per
quella mente, non sono i concetti astratti, ma gli individui; non
l’usignuolo generico, ma gli usignuoli concreti. È naturale, forse
inevitabile, che in Inghilterra non sia compresa rettamente l’Ode a un usignuolo.
Nessuno
veda riprovazione o disdegno nelle parole che precedono. L’inglese
rifiuta il generico perché sente che l’individuale è irriducibile,
inassimilabile e senza eguale. Uno scrupolo etico, non un’incapacità
speculativa, gl’impedisce di operare con astrazioni, come i tedeschi.
Non capisce l’Ode a un usignuolo; codesta importante incomprensione gli
permette di essere Locke, di essere Berkeley e Hume, e di redigere,
settant’anni fa, gl’inascoltati e profetici avvertimenti dell’Individuo
contro lo Stato.
L’usignuolo,
in tutte le lingue del mondo, gode di nomi melodiosi (nightingale,
nachtigall, ruiseñor), come se gli uomini istintivamente avessero voluto
che questi non demeritassero del canto che li meravigliò. A tal punto
lo hanno esaltato i poeti, che ora è un poco irreale; meno affine alla
calandra che all’angelo. Dagli enigmi sassoni del Libro di Exeter (« io,
antico cantore della sera, reco ai nobili gioia nelle ville ») alla
tragica Atalanta
di Swinburne, l’infinito usignuolo ha cantato nella letteratura
inglese; Chaucer e Shakespeare lo esaltano, e così Milton e Matthew
Arnold, ma a John Keats uniamo fatalmente la sua immagine, come a Blake
quella della tigre.* A questi bisognerebbe aggiungere il geniale poeta William Butler Yeats che, nella prima strofa di Sailìng to Byzantium, parla delle « morenti generazioni » di uccelli, con allusione deliberata o involontaria all’Ode. Si veda T.R. Henn, The Lonely Tower, 1950, p.211.